Monte Cucco, storia di gite, grotte, pecore e tramonti scanzonati di giovani ragazze.

  

Sono nata in un piccolissimo paese di montagna, alle falde del Monte Cucco, nel bel mezzo dell'Appennino umbro-marchigiano. Fin da piccola ho imparato ad amare quei luoghi caratteristici e ineguali, dalla finestra della mia casa si gode il più bel panorama possibile, con una piccola vallata e tutto intorno una cornice di monti dal profilo classico, con una sovrapposizione di cime che ricordano i disegni dei bambini dell'asilo.

Tra loro, proprio nel centro, un'insolita figura maestosamente rocciosa, il Monte Catria alto 1702 metri, mi ha da sempre affascinato. I suoi colori variano a seconda che sia mattino o pomeriggio, al mattino presto, nelle giornate di cielo terso, si ammanta di carta argentata mentre man mano che la giornata scorre si nasconde dietro una leggera velatura grigia. Quando cala il sole poi, il nero predomina e staglia ancor più nettamente il profilo nel colore del giorno che se ne va.

Alle spalle della mia casa, un po' nascosto dalla vegetazione dei boschi c'è il Monte Cucco, una delle mie mete preferite nelle estati trascorse in questo luogo magico.

Sin da ragazza mi arrampicavo volentieri su per i sentieri di montagna, con le mie cugine che vivevano lì e che dovevano accudire le pecore mandate a pascolare sui monti, partivamo con una piccola merenda a base di pane e formaggio e, chiacchierando, ci incamminavamo allegramente.

Arrivate sul posto ci sdraiavamo in terra guardando le nuvole sopra la nostra testa e fantasticavamo di ragazzi e di vacanze, a volte ci raggiungeva qualche amico e ci si metteva a scherzare ingenuamente.

Poi consumavamo il nostro pane e formaggio e bevevamo alla sorgente e, prima che facesse notte si tornava a casa.

A quei tempi, parlo degli anni sessanta, la vita rurale dei miei compaesani era scandita dai vari impegni campestri e dall'allevamento degli animali da cortile, da soma e da aratro. Infatti, le mucche oltre a provvedere alla produzione del latte per la colazione e per la preparazione dei formaggi, avevano anche l'ingrato compito di trainare l'aratro che solcava i campi nella predisposizione della semina.

Ma la montagna, così impervia e disseminata di anfratti offriva agli infaticabili dominatori del luogo, la legna giusta per produrre l'antico combustibile: il carbone.

Mio padre era uno di questi, partiva al mattino presto e dopo aver salito ininterrottamente il piccolo sentiero che portava verso le cime, ad un certo punto si inoltrava verso la Forra del Rio Freddo, una meraviglia per i turisti speleologici ma un inferno per chi doveva tagliare gli alberi adatti allo scopo.

Si procedeva al taglio e data la pericolosità del luogo ci si doveva spesso legare con delle funi, per timore di cadere nel vuoto per oltre cento metri di profondità.

In fondo al burrone, tra due pareti, scorre il Rio Freddo, un fiume che scende in piccole cascate, la vegetazione è molto rigogliosa e ora il silenzio è rotto solo dal rumore dell'acqua.

Ma allora no, i monti erano brulicanti di gente che segava, tagliava, e le loro voci fendevano l'aria a volte con canzoni e stornelli, naturalmente i più ottimisti come mio padre.

La vita del carbonaio era questa, sempre all'aperto, anche la notte, perché una volta accesa la carbonaia non si poteva lasciare senza controllo, poteva prendere fuoco il lavoro appena iniziato ed anche tutta la vegetazione circostante.

La sera si rifugiavano nelle grotte, ce n'era sempre una a portata di mano, e si addormentavano stanchi dove capitava, non certo su di un materasso. Qualche volta le mogli accorte partivano da casa con una pentola di polenta e qualche pezzo di formaggio ma a volte si dovevano arrangiare e procacciarsi il cibo sul posto.

Poteva capitare di riuscire a trovare qualche buon bocconcino, non mancava certo la selvaggina ma, so per certo, dai racconti preziosi dei vecchi del luogo, che non si disdegnava un bell'arrosto di pecora, lassù ne pascolavano molte.

A tale proposito si racconta della sottrazione di uno di questi animali rimasto indietro rispetto agli altri e che quindi fu candidato a finire sulla brace.

Poco più in là, in uno scenario degno della più fervida fantasia dantesca, sorge l'Eremo di Monte Cucco, arroccato sulla parete rocciosa disseminata di piccole grotte.

Questo luogo fu scelto come dimora da uomini assetati di Dio e di verticismo spirituale, desiderosi di evadere dal mondo, a diretto contatto con la natura, in un ambiente ideale per la vita meditativa e contemplativa.

I nostri monti si popolarono di questi solitari: Essi vivevano in piccole celle, costruite in luoghi solitari impervi, in grotte naturali, al riparo dalle intemperie e dagli animali. L'insieme delle celle separate formava l'eremo.

Alcuni però sentivano il bisogno di una sede comune ed ecco sorgere il monastero che nel tempo si arricchì di aule, refettorio e biblioteca.

Il primo abitatore, storicamente accertato, della spelonca di Monte Cucco, sotto l'immensa rupe, è il Beato Tomasso da Costacciaro, che vi ha dimorato per quasi 65 anni, e vi è morto nel 1337.

Nelle mie varie escursioni, nel corso degli anni, accompagnata da un piccolo gruppo di amici, appassionati della montagna ma più precisamente di quei luoghi che sentiamo nostri, per nascita, per appartenenza affettiva, ho imparato a riconoscere i sentieri, che come piccoli fili, intrecciano la tela geografica di questi posti incantevoli.

Si partiva dalla Torre di San Felice e si cominciava la salita, non senza essersi muniti di tutti quei generi di conforto quali la merenda, la pomata contro le punture degli insetti e un bastone utile per aiutarsi nella salita. La borraccia con l'acqua si poteva anche dimenticare perché qua e là c'è sempre una sorgente o una fonte che ci possa dissetare.

Era divertente vedere al nostro passaggio quelli che rimanevano in paese che ci aspettavano sull'uscio di casa ciascuno formulando il proprio saluto più o meno ironico.
Tra noi infatti spesso capitava qualcuno meno esperto ed allenato che bisognava poi trascinarsi dietro.

Ma tra i più affiatati c'era ormai una sorta di comportamento standard, si sapeva perfettamente dove l'uno si sarebbe fermato per fare il primo spuntino o dove un altro avrebbe cominciato a dire quelle sciocchezze che tutti volevamo sentire.

Per tenere lontano i tafani, abbondanti nella stagione estiva, ciascuno si procurava un piccolo ramoscello frondoso, che avrebbe agitato per tutto il percorso davanti al proprio corpo, per evitare fastidiose punture.

Iniziavamo il percorso seguendo un sentiero già battuto dai nostri antenati quando si recavano al lavoro di boscaioli facendosi largo tra i rami frondosi che pian piano invadevano il sentiero, dando colpi di roncola per rendere più agevole il transito.

Man mano che l'abitato si allontanava ci sentivamo sempre più distaccati dal mondo civile e la natura mostrava i suoi colori in tutte le sue tinte e sfumature.

Dopo aver salito un lungo tratto si arrivava in un poggio da dove si godeva un panorama splendido, a sinistra c'era un dirupo e in fondo scorreva il fiume. Sulla destra una parete rocciosa che chiamiamo l'Orneta e proseguendo il cammino si saliva il tratto più difficile.

Si chiama la Cottabella e bisogna affrontarla con molta grinta perché è molto ripida e sdrucciolevole, ma al termine di questa si arriva ad un bivio meno pesante e qui bisogna scegliere se andare a destra o a sinistra, perché andando verso destra si arriva sulla Croce, una sommità dalla quale si gode una vista meravigliosa.

Abbassando lo sguardo si vedono dei paesini incastonati nel verde, il primo è San Felice, dal quale proveniamo, più in basso c'è Perticano con il suo laghetto artificiale e a sinistra si vede Pascelupo, in direzione del monte Catria, maestoso nella sua bellezza.

Alle nostre spalle troneggia il Monte Cucco, montagna calcarea chiamata "la grande piramide" e quella era solitamente la nostra meta, così dopo aver fatto un fugace spuntino, riprendevamo il cammino verso l'alto, passando per un luogo chiamato il “Passo della Porraia”.

Questo sito ha una particolarità: scavando appena sotto un lieve strato di sassi, si possono trovare delle conchiglie fossili a testimonianza della teoria secondo la quale l'Appennino una volta era sommerso dalle acque.

A questo punto si scende per un po' costeggiando un fiume che spesso in estate è asciutto e poi ci si intrufola di nuovo nel bosco e ricomincia la salita, spesso si incontrano mandrie di mucche al pascolo e poco più su ecco un bell'abbeveratoio, qui ci si fermava per dissetarci e riempire nuovamente le nostre borracce, prima di proseguire per l'ultimo sforzo attraverso un grande faggeto.

Incontriamo un invisibile confine chiamato la croce dei fossi che divide tre comuni e, dopo una faticosa ultima salita, eccoci nella Val di Ranco, un piccolo pianoro verde, che si può raggiungere anche in auto da due diversi fronti. Qui vi sono ville e ristoranti e prati per rilassarsi al sole o sotto grandi alberi, per un pic-nic o un sonnellino.

Da qui si decide se continuare fino alle grotte o se tornare indietro, ma i più temerari proseguono almeno fino all'entrata della grotta, magari ignorandola per proseguire fino alla cima.

Si attraversano prati con pascoli e appassionati di volo con deltaplano, e seguendo un sentiero impervio si arriva all'ingresso della grotta.

Qui si scendono 100 pioli in ferro ma non ci siamo mai entrati perché a quei tempi non erano aperte al pubblico. Infatti solo gli speleologi si arrischiavano a farlo in quanto la profondità di 900 metri e la lunghezza di circa 30 km costituivano un pericolo molto insidioso per i comuni mortali.

Proprio sopra l'ingresso della grotta ci si arrampicava mani e piedi per l'ultima tappa, la vetta del Cucco, arrancando per la fatica ma desiderosi di conquistare la cima credendo per poco di essere sull'Everest e dover piantare la bandiera, ma quando si arrivava in vetta c'era già sempre qualcuno che ci aveva preceduto, senza bandiera naturalmente.

Stanchi ma appagati ci si sedeva per ammirare il fantastico panorama, sorseggiando l'acqua delle borracce e, devo confessare, a volte spuntava anche quella del vino, che qualche allegro baccante non dimenticava di mimetizzare.

A questo punto bisognava decidere l'itinerario di ritorno, se si sceglieva quello più corto bisognava andare a ritroso, ma se si decideva per quello più lungo si andava a scalare un'altra cima chiamata Lo Spicchio.

Ricordo di una volta che decidemmo di fare merenda su quest'altura, da qualche zaino uscì fuori un barattolo di marmellata ed una bottiglia di vino con cui festeggiammo la nostra bella compagnia e tra cori montanari e risate, tornammo allegramente in paese.

Al nostro ritorno, invariabilmente, la gente usciva di casa per sapere quale fosse stata la nostra meta, e, alla risposta sincera che davamo loro, ci guardavano stupiti ed ammirati.

A malincuore ci lasciavamo per tornare ciascuno nelle nostre case e alle nostre famiglie, ma quelle esperienze ci tenevano uniti e formava tra noi un legame unico, talmente speciale che ne eravamo gelosi, non permettevamo a nessuno di entrare nella nostra piccola banda e, se a volte eravamo costretti a farlo, magari per obblighi di parentela, la consideravamo un'intrusione bella e buona.


   

  
  


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