Categoria: Racconti e Fiabe
Tra aneddoti, racconti e storie vere con un bel bicchier di vino.
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Le radici degli individui, siano essi uomini o donne, ad un certo punto della vita, diventano importanti, questo perchè la provenienza e l'appartenenza ad un certo popolo ed alla sua cultura ci aiuta a crescere con maggiore sicurezza, quasi come una guida, un supporto che ci rende più agevole il cammino.
Questa sensazione è ancor più intensa quando si torna al proprio paese natio, dove si è trascorsa una porzione di vita e i ricordi sono lì, basta ripercorrere un sentiero di campagna e torna in mente di quella volta che, passeggiando e raccogliendo more, all'improvviso attraversò la stradina una vipera e tutti ci mettemmo a urlare di paura.
I racconti degli anziani poi, erano una vera delizia, la ricerca degli aneddoti che riguardavano i miei antenati si faceva sempre più accanita, desiderosa di apprendere e conoscere meglio quale tipo di vita avevano condotto in quel piccolo, sperduto angolo di mondo.
Nella mia famiglia, ad esempio, ci fu una tragedia che ricorda un pò la vita alla corte del Re Sole. Secondo quanto raccontato da miei anziani parenti, il mio bisnonno rimase orfano all'età di otto anni perchè suo padre che era al servizio del Re d'Italia nella tenuta di Castel Porziano, con la qualifica di primo fattore del re, fu avvelenato per invidia dai suoi colleghi che ambivano al suo posto.
Venuto a conoscenza dell'accaduto, il re fece chiamare il mio bisnonno rimasto orfano e gli fece confezionare un bel vestito nuovo, come risarcimento per la grande perdita.
Si raccontavano anche storie molto divertenti ed aneddoti esilaranti sui vari personaggi che popolavano il paesino, trovavo straordinario il modo che avevano i narratori, di far rivivere i personaggi dei loro racconti, coloriti e vivi, con i loro difetti, virtù, vizi, ma incredibilmente umani.
Questi momenti riuscivano ancor meglio dopo aver gustato un bicchiere di vino, magari dalla propria botte, nella cantina sotto all'abitazione. Andavano orgogliosi del proprio prodotto anche se era vino con scarsa gradazione e piuttosto acidulo, a causa dell'altitudine.
Non di rado qualcuno più generoso, ad un certo punto della serata, e per non bere a stomaco vuoto, si decideva a staccare dal soffitto un salame o un prosciutto, quasi sempre di nascosto dalle mogli, che su quelle prelibatezze avevano già messo l'ipoteca.
Si andava avanti così per ore, e ad un certo punto un altro partecipante faceva l'offerta di spostare il resto della serata nella propria cantina, naturalmente l'invito era subito accettato e così ci si avviava un pò barcollanti verso un'altra botte, ma il vino era sempre dello stesso tipo, cioè brencio (acidulo).
Le storie che ascoltavo, vere o inventate che fossero, fanno ormai parte di me, e ogni volta che aggiungo un piccolo pezzo della vita vissuta dai miei antenati, è come se aggiungessi tessere ad un mosaico che alla fine formerà il quadro completo della mia vita.
Mi piacerebbe poter riuscire a trasmettere questi miei ricordi e sensazioni ai miei discendenti, ma mi rendo conto che questi hanno già iniziato autonomamente ad accatastare ricordi, grazie all'attaccamento che anch'essi dimostrano per le loro origini,
e grazie anche un pò a me.
Evviva la campagna!
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Le due fanciulle ed il nuovo mondo
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...continua da "Le due bambine ed il ritorno."
Passarono gli anni e le due sorelline diventarono grandi, intorno a loro, nel grande istituto che le accoglieva, si avvicendavano compagne e suore, chi partiva, chi arrivava, ma loro erano sempre lì, in attesa che il loro turno di lasciare il collegio arrivasse.
La loro mamma continuava a prendersi cura delle figlie ma la loro educazione era completamente affidata alle suore e questo non era certo un grande esempio di famiglia tradizionale, inoltre era a loro completamente sconosciuta la figura maschile e per questo motivo, quando raramente accadeva di essere di fronte ad una persona del genere maschile, non avevano idea di come ci si dovesse comportare.
L'educazione che veniva loro impartita era condita con negazioni e fioretti, la regola del silenzio poi, predisponeva le poverine alla timidezza più imbarazzante. Inoltre, per meglio rappresentare la realtà del mondo esterno, le suore insegnavano alle ragazze a stare alla larga dagli uomini, non spiegando bene il perchè.
Erano talmente convincenti che più di una delle educande si convinsero a prendere i voti in modo da evitare per sempre l'impatto terribile del ritorno, salvo poi sciogliere il voto qualche anno dopo, in seguito al pentimento per aver così frettolosamente e vigliaccamente evitato l'inevitabile.
Arrivò così anche per loro il grande addio sebbene lo avessero atteso per lunghi anni, ora che era giunto il momento, non si sentivano più tanto sicure di voler lasciare quella che era stata la loro casa per dieci lunghi anni ma ormai erano abbastanza grandi per poter lasciare il posto ad altre orfanelle.
La loro mamma aveva trovato un appartamento piccolissimo in un seminterrato proprio di fronte all'istituto, per poter consentire alla più piccola di continuare a frequentare la scuola anche da esterna.
Uscirono dal collegio dopo aver salutato tutte le loro compagne con gli occhi gonfi di lacrime, non avendo nessuna idea di ciò che avrebbero trovato al di fuori di quel luogo.
Entrarono nella casetta e, nonostante fosse un seminterrato e molto piccola, ai loro occhi era una reggia, avevano una casa tutta per loro, sprovvista di corridoi e camerate infinite, era quasi un gioco.
Ma molto presto cominciarono a fare i conti con la dura realtà. La più grande doveva trovare un lavoro per contribuire al mantenimento della famiglia, mentre la piccola ancora studiava, ma essendo molto timida e non abituata a rapporti umani soprattutto con il sesso maschile, fu molto difficile per lei riuscire a mantenersi qualsiasi tipo di lavoro le capitasse.
L'unica cosa piacevole della loro vita era sempre là, a molti chilometri di distanza, nel paesino della loro infanzia e nel periodo estivo continuarono ad andarci per trascorrere un mese in assoluta letizia.
Erano ormai abbastanza grandi per provvedere alla conduzione della loro casa e impararono presto anche a cucinare, sotto lo sguardo benevolo di qualche vecchia zia che ogni tanto andava a controllare.
Nelle sere d'estate si ritrovavano in gruppo, dopo cena, per fare una passeggiata al chiarore della luna, e soprattutto nella notte di San Lorenzo, si sdraiavano sul prato a contare le stelle cadenti.
In un paese non molto lontano c'era una pista da ballo all'aperto e qualche volta ci andarono accompagnate da giovani parenti ed amici, quando si riusciva a trovare qualcuno che poteva accompagnarle in macchina.
Era bellissimo stare in mezzo alla gente, circondate dall'affetto e dalla simpatia di tante persone, riuscirono anche a superare la diffidenza dell'abbandono ai vorticosi giri di valzer. Nel mezzo di un ballo subentrava un altro pretendente che reclamava il suo turno e questo poteva generare simpatiche schermaglie tra i giovani, che terminavano sempre con grandi risate.
Nel piccolo paese, a quei tempi molto bigotto, tutto questo andirivieni era mal visto, ma si sa, le due ragazze venivano dalla città e chissà che razza di educazione avevano ricevuto!
Altre volte si riunivano tutti nella grande cucina della loro casa, e armati di bottiglia vuota, si sedevano a terra a giocare al famoso gioco, per poter rimediare qualche bacio o ceffone, o qualche ingenua penitenza.
Ma la mascalzonata più in voga in quegli anni era il furto dei cartocci.
Nel mese di agosto il granturco è nel massimo della sua maturazione e i contadini che non avevano provveduto alla raccolta delle pannocchie, al calar del sole si impensierivano all'idea che in giro ci fossero dei giovani villeggianti.
Ma, regolarmente, il gruppo organizzato colpiva, a costo di aspettare le ore piccole, tanto prima o poi, armati di fucili o no, i proprietari dell'ambito cartoccio sarebbero andati a dormire.
Naturalmente bisognava provvedere pure alla legna per il fuoco ma il sistema era lo stesso.
Il giorno dopo, al nascere dei sospetti da parte dei contadini, i mangiatori di cartocci azzardavano l'ipotesi che fossero stati i cinghiali o il tasso, ma purtroppo non venivano creduti ed allora le minacce fioccavano.
C'è stato anche qualcuno che, vistosi scoperto, ha organizzato una serenata sotto la finestra del contadino con accompagnamento di crostata, rischiando lanci indesiderati dall'alto.
Cominciarono per le due ragazze, le prime emozioni sentimentali, sempre nel rispetto della educazione monastica, il massimo della intraprendenza da parte dei loro ammiratori era ricambiata con furtivi sguardi e sogni ad occhi aperti, nonostante ciò, quando arrivava la mamma per riportarle nella grande città, le malelingue si affrettavano a comunicare alla ignara genitrice, la condotta disdicevole delle sue amate figliole.
A questo punto piovevano rimproveri sulle loro teste, ma consapevoli di essere innocenti, non se ne preoccupavano più di tanto e, salutati gli amici e i cari monti, se ne tornavano alla vita in città.
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Le due bambine ed il ritorno.
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... continua da "Le due bambine, la gioia e il dolore."
Trascorsi gli anni della fanciullezza, le due bambine continuarono a vivere in quel luogo triste che era il collegio, piano piano si adattarono a quel tipo di vita fatta di regole, impegni scolastici e mansioni ma soprattutto di preghiere.
Dopo le ore dedicate al sonno, quelle impiegate a pregare o ad ascoltare messe erano certamente le più numerose, e le ore di svago erano veramente scarse. Anche così trovarono la forza di andare avanti, infatti la loro mamma continuava a promettere loro che l'anno successivo le avrebbe riprese con sè e loro le credevano, non sapendo che questa era solo una pietosa bugia.
Ma poi, fortunatamente e puntualmente arrivava l'estate ed allora la loro clausura si tramutava in libertà assoluta. Finalmente avevano la possibilità di tornare al loro amato paesello, ma essendo ancora piccole e poichè la mamma non poteva stare con loro neanche nel mese di agosto, venivano affidate ad una zia molto buona che se ne prendeva cura come se fossero sue figlie, tanto ne aveva già altre due che vivevano con lei.
Arrivando al paesello, nella cornice stupenda delle montagne che tanto amavano, la città sembrava non essere mai esistita e le due sorelline facevano tutto il possibile per non ricordare il luogo da dove provenivano e dove sarebbero tornate di lì a poco.
Ma un mese era un'infinità di giorni e se li godevano tutti facendo quelle semplici cose come andare in montagna a controllare le pecore che pascolavano o guardare i contadini che mietevano il grano. Poi la sera si cenava tutti insieme e prima di andare a dormire c'era la "veglia".
Era questo un modo di stare insieme, dopo cena ci si radunava in una casa se era freddo, oppure all'aperto, sui gradini delle case se faceva caldo.
Nelle sere in cui non si poteva stare all'aperto ci si radunava accanto al fuoco e le bambine, assieme agli altri amichetti, si infilavano sotto la tenda che circondava il camino, sedute sulla panca ad ascoltare i racconti degli anziani.
Restavano lì in silenzio, quasi senza fiatare, cullate dalla voce del narratore che con enfasi esagerata decantava racconti di guerre e di migrazioni. Molti di loro erano stati a lavorare nei paesi del nord Europa, nelle miniere di carbone, o erano scampati alle guerre mondiali.
Era bello per loro quando, durante queste veglie, si facevano cose come sgranare granturco, per togliere i gialli chicchi che sarebbero poi stati macinati per farne farina per la polenta.
Ma il momento più emozionante era quello della trebbiatura. Si attendeva con ansia di vedere spuntare dalla curva sotto la chiesa, il lungo veicolo di colore arancione che con gran fracasso emergeva in tutto il suo splendore.
Si faceva fatica a distinguere l'uomo che guidava quel grande trabiccolo e ci si affollava correndo per capire in quale campo sarebbe andato ad insediarsi.
Iniziava così una settimana movimentata, i bambini erano sempre lì attorno a curiosare e ad ascoltare il rumore ritmico della macchina che divideva il grano dalle spighe e alla sera tornavano a casa per la cena tutti ricoperti di un giallo strato di pula, polvere che penetrava anche nelle case.
Ma la macchina diventava ancor più affascinante la notte, al calar del sole accendeva i grossi fari che illuminavano i campi e i bambini non volevano lasciare quell'attrazione, quasi fosse una giostra, ma poi dovevano andare a letto e si addormentavano con il rumore della trebbia nelle orecchie.
Accadeva che al mattino, alzandosi dal letto ed affacciandosi alla finestra l'incanto era sparito completamente, l'unico segno del passaggio della trebbiatrice era la scomparsa dei covoni di grano e l'apparizione delle balle di paglia, ma altre volte, quando il lavoro terminava nel pomeriggio, gli operai ed i contadini facevano festa sull'aia con cene, canti e balli, accompagnati dalla fisarmonica.
Le due sorelline non soffrivano per la mancanza della mamma perchè erano abituate a vivere senza di lei e, quelle poche volte che le raggiungeva per stare con loro per qualche giorno, sconvolgeva la loro vita con premure e attenzioni a cui loro non erano abituate e questo non veniva apprezzato dalle bambine.
Ma poi c'era un altro evento che si profilava all'orizzonte: la festa del patrono del paese. Le massaie cominciavano a cucinare una settimana prima per essere sicure che ci fossero abbastanza cibi per il grande pranzo. Venivano accesi i forni a legna e si cuocevano i dolci, poi si uccidevano i polli ed i conigli destinati alla grande scorpacciata. La mattina della festa tutti si agghindavano con il vestito migliore e cominciavano a sfilare per recarsi nella chiesetta antica dove il prete scalpitava suonando le campane.
Intanto nelle case si imbandivano i banchetti e cominciavano ad arrivare gli invitati dagli altri paesi, per prendere parte all'evento.
Finalmente ci si metteva a tavola e dopo la grande abbuffata qualcuno si concedeva un pisolino in attesa della funzione religiosa del pomeriggio che culminava con la processione.
Questa era una sfilata che piaceva molto ai bambini, tutti in fila dietro alla statua della santa, portata a spalle dai rudi contadini per l'occasione agghindati come sacerdoti.
Si tornava poi verso casa per la cena, a base di "avanzi" sempre molto graditi e poi c'era la grande festa da ballo. I grandi si cambiavano e si dirigevano al punto di ritrovo, di solito era un'aia con il terreno accidentato su cui era difficile mantenersi in equilibrio ma la voglia di ballare fa miracoli.
Le due bambine si tenevano per mano e tornavano con la mente ai ricordi parzialmente cancellati della loro prima infanzia, quando era il loro papà a suonare la fisarmonica e a guidare le danze. Qualche lacrima scendeva dai loro occhi, ascoltando le vecchie canzoni che avevano accompagnato i loro primi felici sonni.
I giorni trascorrevano allegramente, con i loro amici di sempre, correndo appresso alle pecore o ammirando una cucciolata, la sera andavano sopra i covoni di paglia a guardare le stelle e le lucciole, ma poi inevitabilmente, i giorni finivano, restavano solo quelli per prepararsi al ritorno e l'umore delle bambine scendeva sempre più giù.
All'improvviso dovevano riprendere contatto con la realtà e la tristezza raggiungeva il suo culmine quando il treno cominciava la sua corsa verso il grigio, tetro destino.
Ma il momento più terribile era davanti al cancello del collegio, la bimba più grande si aggrappava ad una grossa pietra per non entrare, sperava di riuscire a vincere con la forza delle sue esili braccia, l'inesorabile ritorno alla vita di sempre.
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Le due bambine, la gioia e il dolore.
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... continua da "due bambine, il pettirosso e la neve"
Le due bambine, nate e cresciute per un poco nel paesino sperduto tra le montagne, dopo la prima infanzia felice, furono catapultate nel mondo reale e bruscamente risvegliate da quel sogno innocente di una vita fatta di semplici cose, come la neve a Natale e un pettirosso intirizzito da salvare, una cartolina posta in un angolo a fare da sfondo ad un improbabile presepe.
Tutto questo svanì per sempre quando una incurabile malattia si portò via il loro adorato papà. Dissero addio alle due mucche che abitavano la stalla al piano terra della loro abitazione e, raccolte le loro piccole cose in una vecchia valigia, presero il treno che le avrebbe condotte nella grande città, dove da tempo risiedevano i loro parenti.
Le bambine non capirono appieno quale grande tragedia le avesse colpite, ma il loro piccolo mondo era stato completamente stravolto dalle conseguenze di questo evento. Per qualche tempo andarono ospiti qua e là da parenti e compaesani che si erano stabiliti in città, ma nessuno si offrì di aiutare la famigliola superstite e così si rese necessario la ricerca di un luogo ove potessero vivere e studiare mentre la loro mamma avrebbe trovato un lavoro.
Andarono a finire in un orfanatrofio, tra altre cento ragazze e bambine di tutte le età, e con loro grande dolore, oltre ad essere private della presenza della mamma, furono anche divise, a causa della diversa età di ciascuna, in classi diverse.
Si incontravano di tanto in tanto, la piccola aveva tre anni e la grande sei ed era quest'ultima che soffrì maggiormente perchè più consapevole e cosciente della definitiva perdita del loro piccolo mondo.
In quel luogo tutto era smisurato, le camerate contenevano ciascuna 30 bambine, il refettorio 100 persone, le monache erano 30 e non tutte avevano l'atteggiamento giusto per educare delle bambine che già avevano tanto sofferto.
Anzi, alcune erano veramente severe ed arcigne, non avevano alcuna comprensione per le lacrime di quegli esserini sperduti che consideravano numeri, infatti ciascuna di loro ne aveva uno stampigliato sulla divisa e si doveva sempre tenere a mente.
La bambina più piccola aveva un viso paffutello e riuscì ad intenerire una suora che cominciò a mostrarle affetto, pur senza darlo troppo a vedere per non dispiacere alle altre e non generare gelosie.
Ma la piccola non si accorgeva che c'era qualcun altro che vigilava su di lei, era la sorella maggiore, che con grande discrezione controllava che alla piccola non venisse fatto del male.
In quell'istituto vi erano bambine che avevano alle loro spalle famiglie completamente disastrate, situazioni intricatissime e le due bambine si potevano considerare fortunate per essere semplicemente prive del padre. Avevano comunque una madre che lavorava sodo per procurare ogni genere di cose che potevano servire al benessere delle figliolette e, quando le era consentito, partiva dal luogo ove lavorava, per andare a portare cibo e vestiario per le sue bimbe.
La mamma non poteva permettersi una casa, viveva infatti nel luogo ove svolgeva il suo lavoro di cameriera, o presso una famiglia, o in una pensione, finchè non andò a lavorare in un grande albergo nel centro storico della città. Nei periodi delle vacanze, in particolare quelle di Natale, le bambine uscivano dall'istituto per trascorrere le festività presso le famiglie, ma molte ne restavano dentro perchè i genitori non potevano permettersi di averle con loro.
Le due bambine qualche volta riuscirono ad uscire ed allora la mamma le portava a dormire nel grande albergo, nella camera della servitù, di nascosto dai proprietari dell'hotel, trascorrevano il tempo da sole nella stanzetta che dividevano con un'altra cameriera, ma la loro gioia era incontenibile quando potevano uscire da sole e raggiungere attraverso una famosa scalinata, l'abitazione della loro zia più cara, che viveva in una portineria con il marito e due figli.
Faceva la portiera di un signorile palazzo del centro, a due passi dalla via più elegante della città e la portineria era una piccolissima stanza la cui finestra dava sulla strada. Dietro una tenda c'era un letto matrimoniale dove dormivano gli zii ed i figli avevano una brandina che di sera veniva aperta per la notte.
Tutto era così angusto e stretto ma le due sorelline in quel minuscolo nido si sentivano colme di amore e di premure, gli zii erano molto generosi e riuscirono a trasmettere loro tutto il calore della vera famiglia che avevano completamente dimenticato.
Nei giorni che precedevano il Natale andavano per le strade col naso all'insù per vedere le luci e gli addobbi natalizi ed ascoltavano il malinconico suono delle cornamuse che annunciavano il grande sacro evento.
Riprendevano poi la strada per tornare all'albergo, accompagnate dal profumo delle castagne arrosto che venivano vendute ad ogni angolo e, con gli occhi colmi di bellezza sgattaiolavano davanti all'assonnato portiere di notte, più o meno compiacente, che le vedeva passare davanti al bancone con fare furtivo.
Purtroppo le feste di Natale terminavano presto e bisognava tornare nel grigio squallore delle divise, delle preghiere e delle loro occupazioni, perchè tutte ne avevano una.
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Trattore Landini CL 4000. Racconti di un mostro buono.
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Giocare è il tempo dei bambini. L'estate, alla fresca ombra di collina, quando dopo pranzo tutti dormono, giocare è un diritto di chi non vuole dormire. In quei momenti solo i cani abbaiano all'orizzone e il silenzio spinge i bambini a fare le loro marachelle con più discrezione, perchè correre appresso alle galline per catturarle non è un'operazione che si può fare in quelle due ore che vanno dal pranzo al momento del risveglio del paese.
Al passare delle ore calde, quando l'ombra della collina rinfresca il paese e tutti i vecchi e meno vecchi tornano ad intendersi delle proprie faccende, si ricomincia a giocare in modo rumoroso; trabbicoli di legno con ruote accroccate su cui siedono due o tre munelli di meno di 10 anni scendono le strade male asfaltate del paese, con ripercussioni sulla viabilità della popolazione locale, che deve prontamente schivare i bambini lanciati come saette verso la fine della strada del paese che termina con una pericolosa fratta.
I ragazzi lo sanno, ed è per questo che proprio una curva prima della strada iniziano a frenare gli infernali mezzi di discesa (skateboards e carretti rimediati alla meno peggio).
Una paura di incertezza però li accomuna nella goliardia della risalita a piedi e della ridiscesa in velocità. Una paura dai colori candidi. Un mostro che due o tre volte al giorno sale possente dal fondo del paese fino su in cima, dove riposa la notte per riscendere la mattina dopo. Un rumoroso e massiccio aggregato di cavi, muscoli d'acciaio e dallo strisciante ventre, che solca scie nel terreno come un mammut lascia le sue pesanti impronte sulla neve.
Sul suo corpo c'è una scritta che si legge nella lingua italiana, ma che ai piccoli non da alcun significato. C'è scritto "Landini CL 4000".
Il cavaliere che lo porta ama i bambini e non li darebbe mai in pasto al mostro giallo azzurro. I bambini questo lo sanno, ma sanno anche che devono cercare di non avvicinarsi comunque alla bocca possente del mostro mentre cammina.
Scendono quindi la strada in velocità a bordo dei loro rapidi mezzi, sapendo che il rischio è alto, pronti ancora una volta a delle frenate di emergenza o a delle deviazioni che li porterebbe a farsi molto male sbattendo contro le mura delle case ai lati della strada, sbucciati e doloranti, ma salvi comunque dalla bocca del Trattore LANDINI.
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Le due bambine, il pettirosso e la neve.
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C'era una volta, in un minuscolo paesino di montagna, una coppia felice, l'uomo era nato proprio in quel piccolo agglomerato di casette, alle pendici della montagna e la sposa proveniva da un paesino poco più popolato, a circa due chilometri più a valle.
A quei tempi non c'erano i mezzi di trasporto di oggi e si andava a piedi, anche per questo non c'erano in circolazione tanti "ciccioni".
Lui faceva il contadino e nei suoi campi coltivava il grano, che poi portava al mulino, e da lì ne usciva sotto forma di farina, che sarebbe servita per la produzione del pane per tutto l'anno, e la pasta, naturalmente.
Aveva anche piccoli appezzamenti boschivi dai quali ricavava legna per il fuoco e un orto che bastava alle necessità familiari. Lei, la moglie, si dedicava alla casa e, all'occorrenza, aiutava il marito nei lavori campestri.
Al piano terra dell'abitazione c'era la stalla che conteneva due mucche, "la bionda" e "la stellina" che producevano il latte e poi c'era il maiale, l'animale più importante di tutti, perchè forniva ogni tipo di carne e salumi, senza dimenticare il grasso, che data la scarsità dell'olio, era quasi sempre, l'unico condimento in cucina, persino per condire l'insalata.
A proposito del maiale, essendo questa storia ambientata in un paese marchigiano, a chi volesse fare la solita battuta: "meglio un morto dentro casa che un marchigiano fuori dalla porta", posso senza dubbio ribattere spiegando che un fondo di verità c'è ma l'interpretazione è senz'altro errata.
L'equivoco è nato molti e molti anni fa, addirittura risalente al periodo in cui l'Italia non era unita e la zona delle Marche era compresa nello Stato della Chiesa. Ebbene, da questa regione, in particolare, provenivano i gabellieri, cioè quegli impiegati comunali incaricati di riscuotere i tributi dai cittadini.
Il morto dentro casa era il maiale, che riforniva di carne le dispense ed è risaputo che quando c'è abbondanza di cibo la gente è felice. Allora, potendo scegliere tra l'agente del fisco che bussa alla vostra porta di casa e la dispensa piena di prosciutti e salsicce, cosa scegliereste?
Ecco perchè il detto "meglio un morto, ecc. ecc."
Finalmente, nacque una bambina, anche se lui avrebbe voluto un maschio, aveva persino preparato il nome Valter, che all'epoca era senza dubbio un nome non convenzionale, specialmente in quelle zone. Ma comunque, voleva molto bene alla sua bimba e giocava sempre con lei, quando c'era la neve se la metteva in collo e la portava fuori a cercare gli uccellini in difficoltà.
Quando la piccola ebbe tre anni arrivò la sorellina, paffutella, e la mamma aveva un gran da fare con le piccole, la casa e tutto il resto, ma crebbero alimentate dall'amore e dal cibo veramente naturale che i genitori procuravano.
Quando il papà si recava su in montagna a lavorare la legna, nel far ritorno si fermava a raccogliere le fragoline di bosco per farne dono alle figlie, che accettavano il dono con grande entusiasmo.
All'età di cinque anni, la maggiore iniziò la prima elementare, il suo papà che era anche una persona che ricopriva una sorta di carica pubblica, per evitare che togliessero la scuola a causa dell'esiguità del numero di iscritti, le fece anticipare l'inizio della educazione scolastica di un anno.
La scuola era situata a circa trecento metri dalla loro abitazione e la stradina era in salita, ed allora il papà prendeva in braccio la bimba e la accompagnava in classe, soprattutto nel periodo invernale, quando c'era la neve alta.
Lì, dentro la scuola che era formata da una sola stanza, c'erano i vari banchi e ciascuno di essi conteneva due alunni di classi diverse, era un'aula comune con varie classi ed un'unica maestra. All'ora di pranzo arrivava la mamma di turno con il cibo cucinato per tutti e continuavano la vita insieme, tra parenti e piccoli amici.
In uno di quei giorni invernali, la bimba più grande uscì di casa e vide un pettirosso, mezzo morto di freddo, che faceva piccoli passi sulla neve, allora lei lo prese in mano e se lo portò in casa, vicino al fuoco, per scaldarlo e farlo guarire.
Il papà era bravissimo in tutto quello che faceva, sapeva anche suonare la fisarmonica che gli avevano regalato i fratelli che, nel frattempo erano emigrati in una grande città in cerca di fortuna.
La sera, dopo una giornata di lavoro si metteva in marcia per andare a suonare nelle feste paesane, a volte suonava anche nella sua casa, saliva sul tavolo e, seduto su una sedia, improvvisava serate musicali cantando le arie famose dell'epoca.
La gente ballava e si trascorrevano ore spensierate e felici, anche i piccoli assistevano all'evento ma ad un certo punto arrivava la mamma e le bambine salivano le scale che portavano nella loro camera, e si addormentavano cullate dalla voce del loro papà.
Con l'approssimarsi del Natale cresceva nelle bambine una sorta di eccitazione ma non per i doni che potevano ricevere, poichè non c'erano giocattoli o giochi da comprare, le uniche cose che venivano regalate erano frutta secca e mandarini, ma non conoscendo altri modi per festeggiare, loro non ne sentivano la mancanza. La cosa che più le teneva in ansia era il gran prodigio che avveniva nel grande camino la mattina di Natale.
Infatti, di buon'ora, a piedi scalzi, le piccole scendevano le scale che portavano alla grande cucina e si avvicinavano al focolare ormai spento e cercavano nella cenere del fuoco della sera precedente, le piccole impronte dei piedini di Gesù Bambino, che si diceva fosse sceso dal camino per portare i piccoli doni.
Le loro aspettative non vennero mai deluse, l'amore dei loro genitori compiva sempre questo piccolo miracolo.
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Escursione alla Valle delle Prigioni e Monte Cucco.
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Con il solito, simpatico gruppo di montanari, alcuni indigeni ed altri emigrati ma comunque affezionati ai luoghi stupendi dai quali tutti noi proveniamo, abbiamo osato, in una calda estate di qualche anno fa, attraversare la famigerata Valle delle Prigioni.
La sera precedente prendemmo accordi circa l'orario della partenza, l'itinerario da percorrere, e dopo aver scrutato il cielo alla ricerca dei segnali meteorologici propizi, ci demmo la buona notte.
Alle sei del mattino successivo, ci preparammo per la grande giornata, avevamo intenzione di fare un giro incredibile, volevamo arrivare a Monte Cucco passando dalla Valle delle Prigioni. Mai avevamo osato tanto, ma l’entusiasmo era alle stelle e così riempimmo i nostri zaini ed iniziammo la marcia.
Partimmo da San Felice passando per Le Case, una parte della frazione da cui si origina un sentiero leggermente in discesa, che via via diventa più scosceso e ripido, attraversando la fitta boscaglia e già cominciammo a trovare le prime difficoltà. Da qualche giorno, infatti, pioveva a scrosci, durante la giornata, poi tornava il sereno, ma nell'intrico del sottobosco stentano a passare i raggi del sole e di conseguenza ne uscimmo fuori fradici dalla vita in giù.
Tra noi c'era il più esperto, il solito uccello del malaugurio, dicevamo, che non dimenticava mai di mettere nel suo zaino l'ombrello, anche se il cielo era perfettamente terso e il Bernacca di turno aveva previsto bel tempo fino al Natale successivo.
Scendemmo fino al Sasso, dopo l'abitato di Perticano, c'è il sentiero che comincia a risalire per andare su fino all'Eremo di Monte Cucco (anche noto come Eremo di San Girolamo), ma noi facciamo una deviazione che ci porta ad un altro sentiero meno mistico ma molto più impegnativo.
In basso si sentono le acque del Rio Freddo che gorgogliano saltellando sui massi e con il nostro passo da montanaro esperto, proseguimmo il cammino. In quella occasione la compagnia fu particolarmente eterogenea, poiché il gruppo comprendeva la presenza davvero speciale ed insolita di un nostro compaesano ormai trapiantato in Canada da moltissimi anni.
Era mio coetaneo, compagno di scuola e di giuochi, fin dalla più tenera età, ma un giorno lasciò tutto e raggiunse i suoi parenti nel nuovo continente; per molto tempo ebbi di lui soltanto notizie di seconda mano.
Ma quell’anno era in vacanza e volle partecipare con noi a questa straordinaria escursione.
Comunque, arrivati ad un certo punto del percorso, la cosa si faceva interessante e anche scomoda perché bisognava passare dentro una ex condotta dell'acqua, carponi, con gli zaini in spalla che ci impedivano di avanzare agevolmente a causa della grandezza del tubo, piuttosto angusto, con il suo diametro di poco meno di un metro.
Avevamo come compagno anche un cane che, passando in fila indiana nel tubo, agitando la coda, sembrava voler scacciare le mosche al fortunato che seguiva. Non vi posso descrivere quante risate a crepapelle, chi soffriva di claustrofobia spingeva il gruppo ma con quel groviglio di gambe, zaini, code di cani e bastoni, non se ne veniva a capo.
Finalmente superammo anche questo ostacolo e si aprì ai nostri occhi uno scenario spettacolare, passammo in un tratto sempre costeggiando il fiume, con rocce e spaccature della montagna da sembrare un paesaggio veramente insolito per quei luoghi dalla fitta vegetazione.
Naturalmente il solito, non posso fare nomi ma c'era sempre, l'affamato che doveva fare la seconda colazione, tirò fuori dallo zaino il panino e cominciò il suo spuntino bevendo l'acqua fresca offerta dalla natura.
Proseguimmo il cammino in salita, e cominciammo ad avere la visuale più ampia, eravamo in una zona in cui c’erano uomini e cavalli, che trasportavano la legna.
Poco più avanti trovammo un grande fontanile chiamato Acqua Passera, un grande abbeveratoio ristoratore per mandrie e viandanti come noi e lì naturalmente ci scappò un altro spuntino, innaffiato, si fa per dire con le fresche acque del Pian delle Macinare.
Arrivati in questo grande spiazzo il cammino diventò per poco più agevole ed allora, con più fiato a disposizione, potevamo permetterci di scherzare prendendo in giro questo o quell’altro montanaro, ma ben presto dovemmo riprendere i piccoli sentieri ora in salita ora in discesa e risparmiammo il fiato.
Finalmente qualcuno disse: quando ci fermiamo a mangiare? Non ce lo facemmo dire due volte: posammo a terra i nostri zaini e, dopo esserci seduti, timidamente spuntò un panino qua, un pomodoro là, (c'era sempre chi stava a dieta) ma quello che più ci stupì fu il nostro montanaro più anziano, a suo dire irrimediabilmente astemio, che tirò fuori come per magia, la bottiglietta del vino rosso.
Eravamo seduti a conversare e a mangiare il nostro poco lauto pasto quando il “montanaro” disse guardando il cielo: "via, andiamo presto che tra poco piove!".
Guardammo il cielo e poi il livello del liquido scuro nella bottiglia e ci venne il dubbio che avesse esagerato con il vino, data la sua astinenza decennale.
Ma lui insistette e siccome noi eravamo rispettosi dell’esperienza e dell’età, di malavoglia rinfoderammo le nostre vettovaglie e ci rimettemmo in cammino. Non avemmo neanche il tempo di verificare se qualcuno aveva portato il barattolo della marmellata che tanto ci rinfrancava a fine pasto.
Incontrammo appassionati di deltaplano che preparavano i loro velivoli ma dovemmo proseguire velocemente perché, secondo il nostro anziano, di lì a poco poteva venire il temporale.
A questo punto, sulla strada che ci avrebbe portato a Monte Cucco, cominciammo a sentire il rumore preoccupante del tuono, accelerammo il passo e cominciammo ad essere colpiti dalle gocce di pioggia.
Il nostro meteorologo con fare disinvolto tirò fuori dallo zaino l'ombrello e cominciammo a correre per raggiungere al più presto la Val di Ranco, dove avremmo trovato riparo all'interno di uno dei due ristoranti del luogo.
Qualcuno improvvisò un copricapo con buste di plastica, qualcun altro fingendo di parlare di argomenti importanti si mise sotto braccio all'unico possessore del prezioso parapioggia, qualcun altro si inzuppò come un pulcino.
E tutti, alla fine, arrivammo alla meta, ridendo a crepapelle per come ci eravamo ridotti. Ci fermammo per un momento davanti alla porta del ristorante, preoccupati di dover entrare grondanti acqua e con l'aspetto da disperati, ma avevamo necessità di asciugarci e riassumere un minimo di parvenza umana.
La sala del ristorante era gremita di avventori e turisti e, al nostro ingresso sgranarono tanto d'occhi e smisero di mangiare. Ci azzardammo ad attraversare la sala sotto gli sguardi incuriositi e impietositi dei clienti, per dirigerci verso i bagni e, cominciò tra di noi la trattativa sul vestiario di scorta che qualcuno più previdente si era premurato di infilare nello zaino.
Riuscii a rimediare un paio di bermuda maschili di tre taglie più grandi ma furono ben accetti, per l'operazione di spoglio e vestizione però, impiegammo molto tempo perché tutto questo avvenne con grande gaudio e risate, tanto da non riuscire a stare in piedi, soprattutto quando il nostro canadese ci comunicò bellamente che sarebbe entrato nella sala del ristorante per chiedere ai commensali se qualcuno gli avrebbe venduto un paio di jeans.
Questi italo-americani!
Riuscimmo a dissuaderlo e ci recammo al bar per sollazzarci con qualcosa di caldo che ci desse un po’ di sollievo, ma dopo il caffè, più o meno corretto, passammo alla correzione pura e, dulcis in fundo, la bottiglia di prosecco per brindare alla nostra prodezza.
Eravamo stanchi, concitati e zuppi ma ci risollevammo e riprendemmo la via del ritorno. Il percorso proseguiva per un tratto a ritroso, ma poi dovemmo deviare per arrivare in cima a Lospicchio, altra sommità panoramica degna di nota.
Raggiunta la cima, ci sedemmo per un’altra sosta, prima di riprendere l'ultimo tratto che ci avrebbe ricondotti alle nostre case e, controllando gli zaini, ci accorgemmo che qualcuno era ancora in possesso di qualche biscotto o tozzo di pane. Ma, cosa ancor più incredibile, c'era lei, la tanto desiderata marmellata, da consumare obbligatoriamente con le dita, infilandole a turno, nel barattolo.
Questo ci convinse in modo definitivo che la nostra giornata si era conclusa felicemente e, cantando e scherzando, riprendemmo la strada del ritorno.
Negli anni che seguirono tornammo "dal prigioniero" come dicevamo tra noi, ma il ricordo di quella giornata rimane senz'altro indelebile ed insostituibile per tutti noi.
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Monte Cucco, storia di gite, grotte, pecore e tramonti scanzonati di giovani ragazze.
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Sono nata in un piccolissimo paese di montagna, alle falde del Monte Cucco, nel bel mezzo dell'Appennino umbro-marchigiano. Fin da piccola ho imparato ad amare quei luoghi caratteristici e ineguali, dalla finestra della mia casa si gode il più bel panorama possibile, con una piccola vallata e tutto intorno una cornice di monti dal profilo classico, con una sovrapposizione di cime che ricordano i disegni dei bambini dell'asilo.
Tra loro, proprio nel centro, un'insolita figura maestosamente rocciosa, il Monte Catria alto 1702 metri, mi ha da sempre affascinato. I suoi colori variano a seconda che sia mattino o pomeriggio, al mattino presto, nelle giornate di cielo terso, si ammanta di carta argentata mentre man mano che la giornata scorre si nasconde dietro una leggera velatura grigia. Quando cala il sole poi, il nero predomina e staglia ancor più nettamente il profilo nel colore del giorno che se ne va.
Alle spalle della mia casa, un po' nascosto dalla vegetazione dei boschi c'è il Monte Cucco, una delle mie mete preferite nelle estati trascorse in questo luogo magico.
Sin da ragazza mi arrampicavo volentieri su per i sentieri di montagna, con le mie cugine che vivevano lì e che dovevano accudire le pecore mandate a pascolare sui monti, partivamo con una piccola merenda a base di pane e formaggio e, chiacchierando, ci incamminavamo allegramente.
Arrivate sul posto ci sdraiavamo in terra guardando le nuvole sopra la nostra testa e fantasticavamo di ragazzi e di vacanze, a volte ci raggiungeva qualche amico e ci si metteva a scherzare ingenuamente.
Poi consumavamo il nostro pane e formaggio e bevevamo alla sorgente e, prima che facesse notte si tornava a casa.
A quei tempi, parlo degli anni sessanta, la vita rurale dei miei compaesani era scandita dai vari impegni campestri e dall'allevamento degli animali da cortile, da soma e da aratro. Infatti, le mucche oltre a provvedere alla produzione del latte per la colazione e per la preparazione dei formaggi, avevano anche l'ingrato compito di trainare l'aratro che solcava i campi nella predisposizione della semina.
Ma la montagna, così impervia e disseminata di anfratti offriva agli infaticabili dominatori del luogo, la legna giusta per produrre l'antico combustibile: il carbone.
Mio padre era uno di questi, partiva al mattino presto e dopo aver salito ininterrottamente il piccolo sentiero che portava verso le cime, ad un certo punto si inoltrava verso la Forra del Rio Freddo, una meraviglia per i turisti speleologici ma un inferno per chi doveva tagliare gli alberi adatti allo scopo.
Si procedeva al taglio e data la pericolosità del luogo ci si doveva spesso legare con delle funi, per timore di cadere nel vuoto per oltre cento metri di profondità.
In fondo al burrone, tra due pareti, scorre il Rio Freddo, un fiume che scende in piccole cascate, la vegetazione è molto rigogliosa e ora il silenzio è rotto solo dal rumore dell'acqua.
Ma allora no, i monti erano brulicanti di gente che segava, tagliava, e le loro voci fendevano l'aria a volte con canzoni e stornelli, naturalmente i più ottimisti come mio padre.
La vita del carbonaio era questa, sempre all'aperto, anche la notte, perché una volta accesa la carbonaia non si poteva lasciare senza controllo, poteva prendere fuoco il lavoro appena iniziato ed anche tutta la vegetazione circostante.
La sera si rifugiavano nelle grotte, ce n'era sempre una a portata di mano, e si addormentavano stanchi dove capitava, non certo su di un materasso. Qualche volta le mogli accorte partivano da casa con una pentola di polenta e qualche pezzo di formaggio ma a volte si dovevano arrangiare e procacciarsi il cibo sul posto.
Poteva capitare di riuscire a trovare qualche buon bocconcino, non mancava certo la selvaggina ma, so per certo, dai racconti preziosi dei vecchi del luogo, che non si disdegnava un bell'arrosto di pecora, lassù ne pascolavano molte.
A tale proposito si racconta della sottrazione di uno di questi animali rimasto indietro rispetto agli altri e che quindi fu candidato a finire sulla brace.
Poco più in là, in uno scenario degno della più fervida fantasia dantesca, sorge l'Eremo di Monte Cucco, arroccato sulla parete rocciosa disseminata di piccole grotte.
Questo luogo fu scelto come dimora da uomini assetati di Dio e di verticismo spirituale, desiderosi di evadere dal mondo, a diretto contatto con la natura, in un ambiente ideale per la vita meditativa e contemplativa.
I nostri monti si popolarono di questi solitari: Essi vivevano in piccole celle, costruite in luoghi solitari impervi, in grotte naturali, al riparo dalle intemperie e dagli animali. L'insieme delle celle separate formava l'eremo.
Alcuni però sentivano il bisogno di una sede comune ed ecco sorgere il monastero che nel tempo si arricchì di aule, refettorio e biblioteca.
Il primo abitatore, storicamente accertato, della spelonca di Monte Cucco, sotto l'immensa rupe, è il Beato Tomasso da Costacciaro, che vi ha dimorato per quasi 65 anni, e vi è morto nel 1337.
Nelle mie varie escursioni, nel corso degli anni, accompagnata da un piccolo gruppo di amici, appassionati della montagna ma più precisamente di quei luoghi che sentiamo nostri, per nascita, per appartenenza affettiva, ho imparato a riconoscere i sentieri, che come piccoli fili, intrecciano la tela geografica di questi posti incantevoli.
Si partiva dalla Torre di San Felice e si cominciava la salita, non senza essersi muniti di tutti quei generi di conforto quali la merenda, la pomata contro le punture degli insetti e un bastone utile per aiutarsi nella salita. La borraccia con l'acqua si poteva anche dimenticare perché qua e là c'è sempre una sorgente o una fonte che ci possa dissetare.
Era divertente vedere al nostro passaggio quelli che rimanevano in paese che ci aspettavano sull'uscio di casa ciascuno formulando il proprio saluto più o meno ironico.
Tra noi infatti spesso capitava qualcuno meno esperto ed allenato che bisognava poi trascinarsi dietro.
Ma tra i più affiatati c'era ormai una sorta di comportamento standard, si sapeva perfettamente dove l'uno si sarebbe fermato per fare il primo spuntino o dove un altro avrebbe cominciato a dire quelle sciocchezze che tutti volevamo sentire.
Per tenere lontano i tafani, abbondanti nella stagione estiva, ciascuno si procurava un piccolo ramoscello frondoso, che avrebbe agitato per tutto il percorso davanti al proprio corpo, per evitare fastidiose punture.
Iniziavamo il percorso seguendo un sentiero già battuto dai nostri antenati quando si recavano al lavoro di boscaioli facendosi largo tra i rami frondosi che pian piano invadevano il sentiero, dando colpi di roncola per rendere più agevole il transito.
Man mano che l'abitato si allontanava ci sentivamo sempre più distaccati dal mondo civile e la natura mostrava i suoi colori in tutte le sue tinte e sfumature.
Dopo aver salito un lungo tratto si arrivava in un poggio da dove si godeva un panorama splendido, a sinistra c'era un dirupo e in fondo scorreva il fiume. Sulla destra una parete rocciosa che chiamiamo l'Orneta e proseguendo il cammino si saliva il tratto più difficile.
Si chiama la Cottabella e bisogna affrontarla con molta grinta perché è molto ripida e sdrucciolevole, ma al termine di questa si arriva ad un bivio meno pesante e qui bisogna scegliere se andare a destra o a sinistra, perché andando verso destra si arriva sulla Croce, una sommità dalla quale si gode una vista meravigliosa.
Abbassando lo sguardo si vedono dei paesini incastonati nel verde, il primo è San Felice, dal quale proveniamo, più in basso c'è Perticano con il suo laghetto artificiale e a sinistra si vede Pascelupo, in direzione del monte Catria, maestoso nella sua bellezza.
Alle nostre spalle troneggia il Monte Cucco, montagna calcarea chiamata "la grande piramide" e quella era solitamente la nostra meta, così dopo aver fatto un fugace spuntino, riprendevamo il cammino verso l'alto, passando per un luogo chiamato il “Passo della Porraia”.
Questo sito ha una particolarità: scavando appena sotto un lieve strato di sassi, si possono trovare delle conchiglie fossili a testimonianza della teoria secondo la quale l'Appennino una volta era sommerso dalle acque.
A questo punto si scende per un po' costeggiando un fiume che spesso in estate è asciutto e poi ci si intrufola di nuovo nel bosco e ricomincia la salita, spesso si incontrano mandrie di mucche al pascolo e poco più su ecco un bell'abbeveratoio, qui ci si fermava per dissetarci e riempire nuovamente le nostre borracce, prima di proseguire per l'ultimo sforzo attraverso un grande faggeto.
Incontriamo un invisibile confine chiamato la croce dei fossi che divide tre comuni e, dopo una faticosa ultima salita, eccoci nella Val di Ranco, un piccolo pianoro verde, che si può raggiungere anche in auto da due diversi fronti. Qui vi sono ville e ristoranti e prati per rilassarsi al sole o sotto grandi alberi, per un pic-nic o un sonnellino.
Da qui si decide se continuare fino alle grotte o se tornare indietro, ma i più temerari proseguono almeno fino all'entrata della grotta, magari ignorandola per proseguire fino alla cima.
Si attraversano prati con pascoli e appassionati di volo con deltaplano, e seguendo un sentiero impervio si arriva all'ingresso della grotta.
Qui si scendono 100 pioli in ferro ma non ci siamo mai entrati perché a quei tempi non erano aperte al pubblico. Infatti solo gli speleologi si arrischiavano a farlo in quanto la profondità di 900 metri e la lunghezza di circa 30 km costituivano un pericolo molto insidioso per i comuni mortali.
Proprio sopra l'ingresso della grotta ci si arrampicava mani e piedi per l'ultima tappa, la vetta del Cucco, arrancando per la fatica ma desiderosi di conquistare la cima credendo per poco di essere sull'Everest e dover piantare la bandiera, ma quando si arrivava in vetta c'era già sempre qualcuno che ci aveva preceduto, senza bandiera naturalmente.
Stanchi ma appagati ci si sedeva per ammirare il fantastico panorama, sorseggiando l'acqua delle borracce e, devo confessare, a volte spuntava anche quella del vino, che qualche allegro baccante non dimenticava di mimetizzare.
A questo punto bisognava decidere l'itinerario di ritorno, se si sceglieva quello più corto bisognava andare a ritroso, ma se si decideva per quello più lungo si andava a scalare un'altra cima chiamata Lo Spicchio.
Ricordo di una volta che decidemmo di fare merenda su quest'altura, da qualche zaino uscì fuori un barattolo di marmellata ed una bottiglia di vino con cui festeggiammo la nostra bella compagnia e tra cori montanari e risate, tornammo allegramente in paese.
Al nostro ritorno, invariabilmente, la gente usciva di casa per sapere quale fosse stata la nostra meta, e, alla risposta sincera che davamo loro, ci guardavano stupiti ed ammirati.
A malincuore ci lasciavamo per tornare ciascuno nelle nostre case e alle nostre famiglie, ma quelle esperienze ci tenevano uniti e formava tra noi un legame unico, talmente speciale che ne eravamo gelosi, non permettevamo a nessuno di entrare nella nostra piccola banda e, se a volte eravamo costretti a farlo, magari per obblighi di parentela, la consideravamo un'intrusione bella e buona.
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